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Immagine trovata in rete e rielaborata
Qualche giorno fa
fui ospite dell’Università per stranieri di Siena insieme a Lorella Zanardo,
autrice de "il corpo delle donne",
in virtù del Concorso letterario indetto dallo stesso ateneo.
Il Concorso nasceva intorno ad un mio pezzo: "Le nostre donne".
Titolo dell’incontro e tavola rotonda di quel giorno.
"le nostre donne, insieme formiamo una bandiera"
(chiusa de "le nostre donne") è stato invece il tema del Concorso letterario.
Sia Lorella Zanardo, sia io
abbiamo ritenuto interessante condividere i due testi vincitori del concorso
sulle nostre pagine in rete: siti, blog, social network.
Dunque qui di seguito il racconto di Valentina Carbonara e quello di Valeria Gibilisco
rispettivamente prima e seconda vincitrice
del Concorso letterario indetto dall’Università per stranieri di Siena.
Zenzero, mirra ed essenze di donna
(di Valentina Carbonara)
Quando Sa’ida venne a sapere che dopo sei mesi di permanenza a Damasco non ero mai stata
all’hammam, sfoderò un’espressione di benevola riprovazione e nell’increspatura delle sue labbra afferrai un sottile velo di compiacimento. Alla fine della lezione mi disse: “Domani andremo all’hammam al-Qaimariyya, se Dio vuole” e capii che non si trattava di un invito declinabile.
Sa’ida era la mia insegnante di lingua araba all’università, una giovane donna dal viso sottile e ambrato, due occhi di ebano in cui non era raro afferrare un impertinente guizzo di vivacità nonostante l’incedere lento, l’atteggiamento posato, i gesti misurati. Tutto di lei era imbevuto di una saggezza per cui non trovo altra definizione che “orientale”.
L’appuntamento era a Bab-an-Nafura, uno degli ingressi della Moschea degli Omayyadi, che con la sua solenne imponenza interrompe il pulsante e irriverente brulicare del reticolo di vicoli che si infrange contro le sue mura, poste a sigillo di un’intimità mistica indecifrabile, una suggestione di echi salmodiati e incensi che non appartiene agli uomini.
Mentre attendevo all’ombra del minareto orientale, accettando con placida rassegnazione la concezione di tempo e puntualità del Medio Oriente, mi sentii chiamare: “Mara, yallah!”. Una Sa’ida sorridente emerse dalla folla accompagnata da un’altra donna, più matura e dall’aspetto austero. Percepii una certa rigidità nella compostezza rigorosa dell’hijab, nero e spoglio da ogni ricamo o altro ornamento. “Questa è mia cugina, Maryam, e questa è la mia allieva Mara, la più brava di tutte le allieve”. La generosità di Sa’ida mi procurò un mal celato imbarazzo, mentre gli affettuosi convenevoli si prolungarono molto più di quello che la flemmatica formalità occidentale avrebbe concepito.
Percorremmo Shari’a al-Qaimariyya tra chioschi di dolci fragranti e presidi di anziani dalle vesti bianche raccolti attorno al narghilè fumante, fino all’ingresso dell’hammam, una loggetta quadrata con archi posti sui tre lati, abbastanza sobria da non risultare troppo visibile. Sa’ida per prima si addentrò all’interno, dischiudendo il fitto tendaggio che occultava quel riservato santuario femminile da sguardi irrispettosi, preservandone l’inviolabilità.
“‘Ahlen, wah as-sahlen!”, così ci diede il benvenuto una ragazza dai gesti melliflui, seduta a lato dell’entrata, appoggiata torpidamente ad un tavolino con una cassetta per il denaro. Aveva lunghi capelli corvini adagiati sofficemente sulle spalle nude, come le braccia decorate da ricami di henna e buona parte delle gambe. Per quanto una giovane generosamente svestita non mi avrebbe turbato per niente in Italia, non avevo mai visto tanta disinvoltura in Medio Oriente. Mentre Sa’ida concordava il prezzo del trattamento con la ragazza, osservai l’ampio atrio dell’hammam, in cui aleggiava un umido tepore e un intenso profumo di sandalo e mirra. Vi era una fontana zampillante al centro, muretti di pietra coperti da tappeti, divanetti dai drappeggi dorati e, sparsi ovunque, disordinatamente, asciugamani, teli da bagno, saponi di Aleppo e ampolle di oli speziati. Alcune donne si stavano spogliando con spensierato cameratismo, la riservatezza e la pudicizia sbiadivano mentre un tratto deciso ridisegnava i contorni dei corpi, le vesti scivolavano lungo fianchi morbidi, una femminilità celata fioriva su forme materne, acerbe, procaci o esili.
Dall’imbarazzo iniziale, mi sentii sprofondare in un disagio vertiginoso. Mi trovai meno in armonia con il mio corpo rispetto a quelle donne a cui la fisicità, si dice, è spesso negata. Forse perché io ero abituata a confrontarmi con invadenti quanto acclamati modelli di perfezione, assurti a standard minimi per attirare l’apprezzamento di un uomo, mentre in Medio Oriente ci si confronta specialmente con la vicina di casa, la sorella, l’amica e quindi il concetto di bellezza ha contorni più umani.
Imitammo le altre donne nel rituale della spogliazione, indossammo viscidi e massicci zoccoli intagliati con decorazioni e ci dirigemmo lungo un angusto corridoio laterale su cui si aprivano tre sale quadrate, che formavano un monumentale complesso termale. Da ognuna fuoriuscivano spirali di vapore che si addensavano in volute tentacolari sempre più corpose procedendo verso l’ultima sala, “la sala del fuoco”. Il cerimoniale dell’hammam, in accordo con la capacità di adattamento del corpo umano, prevedeva di incominciare il percorso dalla prima sala, quella con temperatura più sopportabile per acclimatarsi e poi procedere in quelle più torride.
“Mara, prendi questo guanto ruvido. Si chiama kese, lo strofini con forza sul corpo finché fuoriesce il jild m’asshar. Poi prendi l’acqua calda e la sciacqui via. Ti insaponi bene e ti sciacqui con l’acqua fredda. E poi ricominci finché non compare più il jild m’asshar !” Seguii le istruzione di Sa’ida, ma quello che io tradussi come “buccia di pelle” o un po’ più finemente in “pelle esfoliata”, non apparve. Dovetti risultare un poco goffa, poiché attirai i sorrisi sornioni di un gruppo di ragazze che sfilavano da un bacino marmoreo della sala all’altro, compiaciute della loro avvenente giovinezza. Sa’ida e Maryam scoppiarono in scroscianti risate di fronte all’immagine di un bianchiccia ragazzina che si stropiccia timidamente gli arti magrolini. “Hai paura di romperti? Devi sfregare più forte, più forte!”. Sa’ida mi prese il braccio imperlato di opache goccioline di sudore e mi frizionò con forza sempre più rapidamente, finché la pelle non divenne rossa e coperta di filamenti grigiastri. La mia insegnante ne pinzò uno fra le dita e sollevandomelo davanti agli occhi esclamò: “Vedi? Vedi quanta roba morta e sporca hai addosso? Ti aiuto io!”. Sorrisi. La mia professoressa si stava occupando della mia igiene come se fosse la cosa più naturale del mondo che una donna semi sconosciuta lavasse un’altra rallegrandosi delle impurità mollicce e un po’ disgustose di cui la liberava. Un piacevole senso di comunione e di protezione soppiantò i parametri di contatto fisico a cui ero abituata e mi lasciai coccolare nella tiepida atmosfera del bagno. Alcune ragazzine si inseguivano, zampettando sul pavimento bagnato, si gettavano secchiate d’acqua fredda a vicenda e ridevano festosamente. Diverse anziane sedevano sui muretti rivestiti di mosaici colorati, con gli occhi chiusi, come meditando avvolte e protette dal madido mantello di nebbia. Altre donne sbucciavano mandarini freschi con i polpastrelli raggrinziti e gustavano sciroppi mentre si facevano massaggiare dalle inservienti dell’hammam. Ognuna con il proprio cammino alle spalle e la volontà di Dio dinnanzi, alcune con gli occhi pieni della cenere dei propri sogni, altre con lo sguardo saldo e il pugno tenace intorno ad un progetto chiamato esistenza. Tutte oscillanti tra il ruolo più o meno gravoso di figlia, sorella, moglie e madre, ognuna imbevuta della stessa luce che il prisma dell’anima scompone in tanti colori diversi. Per la prima volta, in un paese lontano lontano e tanto diverso, avvertivo un senso di comunità che si estendeva e si estende ben oltre quella cornice di acque zampillanti ed effluvi profumati. Semplicemente donne, sempre e ovunque, a prescindere dalle vesti, dalla carta d’identità, dalla forma degli occhi, dal lavoro, dalle cicatrici, dalle stanze della propria casa e dalle stanze del proprio cuore.
“Mara, devi lavare i capelli ora. Ma di questo si occupa Umm Huseyn!” disse Sa’ida, indicandomi una donna corpulenta, vestita di un drappo amaranto e dalla chioma bruna e crespa, raccolta da un vistoso fermaglio, intenta a versare a terra catini d’acqua fredda per accrescere il vapore. Quando si voltò, vidi due occhi sorridenti delineati dall’antimonio, un po’ sbavato per l’umidità. “Sa’ida, mi hai portato una tua nuova amica? Vieni, habibti, inginocchiati qua!”. Prima ancora che potessi capire come muovermi, si sedette su un muretto basso, mi afferrò bruscamente facendomi piegare, mi prese la testa e la appoggiò sulle sue gambe, poi iniziò a sfregarla con impeto. “Voi occidentali! Venite qua a passeggiare! Se non ci fossi io a lavarvi i capelli! Non vi volete lavare bene i capelli? Bisogna lavarli sette volte, così sono belli per tutto il mese!”. Non osai ribattere che provvedevo alla cura dei miei capelli più volte alla settimana e che il concetto di hammam diffuso in occidente era più legato all’estetica che all’igiene personale. “E così Umm Huseyn pensa che le occidentali si lavino poco…”. Sorrisi di fronte all’universalità di un pregiudizio culturale.
“Mara, sei sposata?” mi chiese la donna mentre procedeva vigorosamente il trattamento della mia nuca. “No, sono fidanzata”, risposi pensando all’anellino che incoronava il dito della mia mano sinistra.
-“Lui è gentile con te?”, mi domandò socchiudendo le palpebre con fare circospetto.
-“Mh, si, è gentile…” replicai timidamente.
-“Allora non lo sposare! Perché quelli gentili sono quasi sempre frivoli e lavativi, come il mio ex marito!”.
-“Non ti fidare di una donna divorziata” intervenne Maryam, con un sorriso forse più seccato che affabile.
-“Faceva l’artista, lui! Andava in giro a suonare il liuto e tornava a casa con le elemosine delle donnicciole. Diceva che io ero troppo dura, che non capivo e intanto lo sfamavo servendo le signore della mia strada. Un giorno mi chiede se può sposare una delle donnicciole. La mia signora mi dice di divorziare e farmi dare i soldi della clausola del contratto che avevamo concordato: nessuna seconda moglie. E ora, con la dote che mi aveva donato e il risarcimento, ho comprato l’hammam, sono una signora e una donna libera!”.
-“Non giudicare con orgoglio le tue scelte. Il Profeta ha detto che la separazione è la più detestabile, tra le cose lecite, presso Dio”, rispose Maryam, severamente.
-“Maryam, porti il nome della donna scelta fra tutte le donne, ma anche se tu fossi devota e pura come lei, il giudizio non spetta neanche a te!”, affermò Umm Huseyn.
Sa’ida intervenne con mesta dolcezza per stemperare il tono inasprito dello scambio di battute: “Chiunque, maschio o femmina, se ha operato il bene, entrerà in Paradiso. Per fortuna è Dio solo che giudica. E non un uomo… per fortuna, no?”
E non un uomo… Seppur impregnata di spirito religioso, più o meno condivisibile, l’affermazione di Sa’ida mi apparve lucidissima. Nonostante le battaglie delle donne in tutto il mondo per la propria affermazione, il confronto con il giudizio dell’uomo e con i criteri stabiliti dall’uomo rimaneva una roccaforte inespugnabile. Il cammino dell’emancipazione in Occidente calca il terreno della lotta per il ruolo dell’uomo e ha portato al vicolo cieco per cui la donna libera è la spregiudicata e provocante donna in carriera, un’immagine forse più dettata dal secolare desiderio di rivincita e dal voler piacere più che dal piacersi.
Mentre uscivamo dall’hammam, avvolte da asciugamani morbidi profumati di zenzero, Sa’ida mi sussurrò: “Una donna sufi, una mistica, un giorno disse che il significato interiore delle donne è un mistero per gli uomini. Noi diciamo che Dio solo conosce questo mistero perché lui l’ha riposto in loro. Che tu creda in Dio, o meno, non badare all’uomo che ti dice come devi essere: sta solo balbettando una lingua che non conosce”.
Quattro luglio. Lo squillo della sveglia. Come tutte le mattine aveva teso il braccio verso il comodino per prendere gli occhiali. Aveva stranamente fatto caso ad una striscia di luce lungo l’anta bianca dell’armadio e avvertito un formicolio alle mani e ai piedi. Un ticchettio frenetico al centro del petto aveva spinto Agata a buttarsi fuori di casa, quella mattina, dalla casa che per mesi era stata la sua tana e il suo labirinto. Non era una mattina come le altre.
Erano passati centinaia di giorni e notti, migliaia di ore, da quel venti dicembre di strade scalpitanti, spese isteriche e duelli di clacson. Ormai accecata dal buio del sangue che quella sera le aveva pulsato all’impazzata sotto la pelle, Agata non era più riuscita ad oltrepassare lo zerbino di vimini steso davanti alla sua porta. Rimaneva accovacciata sulla poltrona o raggomitolata tra le lenzuola, senza alzare la tapparella di cannucciato della sua finestra, senza indossare il suo maglione verde. Il ricordo dell’Ombra, dietro di lei, dentro di lei, la tormentava.
Quel dicembre la polvere del vulcano imbruniva i marciapiedi già grigi e un fiume nero scendeva giù dalle grondaie. Natale era vicino e la pioggia non aveva frenato le giostre di folla alla ricerca del miglior regalo da acquistare. Agata aspettava sua madre, come ogni sabato, al numero 10 della luminosa via che taglia in due la città. Immobile sotto un balcone, ma senza riuscire a ripararsi, con i jeans fradici fino alle ginocchia e i capelli biondi che le gocciolavano sulle spalle, aveva deciso di raggiungerla sulla piazza, passando per la solita scorciatoia.
Nonostante il caos e il battere della pioggia sul cemento, aveva udito, senza voltarsi, un rumore cadenzato alle sue spalle. Le era sembrato quasi di riuscire a scandirne un ritmo, di battiti, di vene, di polsi, di cuore, di un’ombra, dell’Ombra, di pietra.
Poi il colpo. Aveva sentito una mano, quella mano, che le schiacciava la testa sul marciapiede. Un corpo cominciava a fremere su di lei, ad agitarsi, ad insinuarsi in lei. Un grido. Buio. Il dolore fisico durò poco, la pioggia lo portò con sé.
Quando lo sfrigolio del cellulare in frantumi svegliò Agata, le gocce del piovasco avevano già sciolto i volantini pubblicitari sulla strada. La piazza era vuota di persone, automobili, luci. Un deserto.
Si alzò, claudicante. Tornò a casa.
Dalla sera dell’Ombra, Agata aveva deciso di rimanere sola, avvolta nel turbine di quelle urla, le sue, che ancora dopo mesi le risuonavano nelle tempie. Voleva il silenzio, lo desiderava. Sorda alle melodie della vita, sentiva che nulla avrebbe più avuto importanza e che niente avrebbe spezzato la scorza di fango indurito che le aveva annichilito i sensi. Ogni giorno, da quel venti dicembre cupo di nubi, era stato uguale, nella sua casa; la stanza cinque per sette del soggiorno, il suo nido; la tenda di cannucciato davanti alla sua finestra, una siepe oltre la quale non volgere lo sguardo; non più agende fitte d’impegni e sogni; non più una vita.
Ma non quella mattina. Aveva deciso di uscire.
Entrò nella sua auto nera senza guardarsi intorno e imboccò la tangenziale. Girovagò per qualche ora; poi, inquietata dalle battaglie di auto ai semafori, si diresse verso l’arenile del lungo mare etneo.
Si fermò, tolse gli occhiali, chiuse gli occhi.
Non trascorse che qualche minuto… Toc, toc. Toc, toc, toc… sul finestrino.
Una bimba la fissava con un coniglio di pezza tra le mani. Agata sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco; con la vista ancora offuscata riuscì a distinguerne gli occhi azzurri incredibilmente aperti. Abbassò il finestrino.
– Cosa fai? Dormi? – chiese la bambina. Aveva cinque, forse sei anni. Agata indossò gli occhiali.
– No. – rispose.
– E allora perché stai lì ferma ad occhi chiusi?
– Aspetto. Agata aveva detto la prima cosa che le era venuta in mente.
– Anch’io sto aspettando. La mia mamma mi ha lasciata qui e mi ha detto di chiedere a qualcuno di farmi compagnia finché non torna. Tu chi aspetti?
– Me stessa.
La bambina scoppiò a ridere, spensierata, chiassosa.
– Ma se sei qui come fai ad aspettarti?… Non è possibile! – disse continuando a ridere.
Agata accennò una smorfia somigliante a un sorriso, poi continuò:
– Sto aspettando una parte di me che mi ha abbandonata un po’ di tempo fa. Sono rimasta a casa a lungo sperando che mi raggiungesse, ma non l’ha fatto. Oggi ho deciso di attenderla qui.
La bambina divenne subito seria, quasi preoccupata. Poi chiese:
– Perché è andata via? Non voleva più stare con te?
Agata era meravigliata, imbarazzata, intimidita da quella libera curiosità.
– Ha avuto paura – le rispose – ma senza di lei sono io ad avere paura.
– Anch’io ho paura senza la mia mamma.
In un attimo la bambina corse dall’altro lato dell’auto, aprì lo sportello e saltò sul sedile. Guardava Agata come se riuscisse a leggerle dentro, con lo sguardo da gatta. Poi disse:
– La mia mamma non verrà. L’ho capito, sai, anche se non me l’ha detto – poi guardò fuori. – UN AEREO! – urlò. Si era drizzata in piedi, a bocca aperta.
Anche Agata osservò la scia dell’aeroplano. Era un piccolo aeroplano, di quelli che s’infilano presuntuosi sopra le nuvole. Sentì di nuovo il formicolio alle mani e ai piedi.
– Scendiamo! – esclamò Agata.
Non credeva alle sue stesse parole. Prese la bimba per mano e passeggiarono sulla sabbia, per ore, senza parlare, senza pensare. Ad ogni passo Agata sentiva avvolgersi dalla brezza marina. Un nastro sottile, sembrava legarla di nuovo all’esistenza. Non era notte e non era più giorno. Soffiava un vento leggero che spingeva le nuvole e il fumo grigio verso il mare. C’era la cenere, ma non la pioggia, solo un sole amaranto e una falce di luna crescente, senz’ombra.
Agata guardò la bambina dritta negli occhi e, con quell’immagine nitida nello sguardo, non udì più alcun suono se non quello del suo respiro… dentro, fuori. Finalmente.
– E’ tornata. – le disse.