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Ascolta sorella
Una conoscenza di riporto ci incontra davanti al Teatro Petruzzelli
e ci indica un – a sua detta – buon albergo.
Salgo io al secondo piano della palazzina signorile in una via centrale.
Un nome di ragazza felice, il nome della pensione.
La donna mi accoglie in dialetto stretto e camere più strette del dialetto
con un cesso e un box doccia ai bordi della stanza.
Mi commuove la madonna nascosta nella nicchia con tutti i santi al cospetto dei peccati
mentre la signora, mi chiama continuamente sorella.
Mentre sale al piano la persona che era con me,
la rumena di turno si scoscia sullo sgabello e appare
un uomo unto di poche parole all’angolo della parete senza santi.
Discuto sull’orario di eventuale rientro. A mezzanotte l’albergo chiude
e noi non vogliamo limiti per pochi giorni di ferie.
Leggo alle pareti un cartello più unto dell’uomo senza parole:
"con o senza bagaglio, il pagamento è anticipato".
La madonnina coi fiori finti e coi lumini e con tutti i santi
è in una nicchia di un bordello di città.
Mi altero come so alterarmi e alla mia testardaggine,
un armadio, forse un ex rugbysta muscoloso, parruccato di biondo
si appoggia alla parete e scuote il capo, seguendo i toni
della signora che continua a spingermi il braccio chiamandomi sorella.
Avrebbe cambiato le regole,
accettato i nostri folli orari, forse c’avrebbe fatto pure
un caffè la mattina, la signora dalle ciabattine dorate.
Lasciamo sola lì, la madonnina coi fiori finti,
a contare peccati.
Una puttana miseria ci porta fuori dove
per forza di reazione si infrange sulla vita,
come una certezza di scogli, il mare.
Un sorriso prezioso ci accoglie
nella città che ha mille vite
e una ne nasconde.
***
Ho visto una zingara felice
Ho visto una zingara felice, giocare coi capelli
nel centro di un parco l’ho vista giocare col suo bambino.
Capelli scuri come la notte che non arriva.
Curve morbide sull’onda delle sue movenze
deve averla imitata persino il mare.
Un’onda di pensieri le stavano addosso
a guardare il culo danzante di una zingara felice
***
What time is it?
Si avvicinano così delle ragazzine a dare una lingua alla loro curiosità.
Non porto orologi da quando il tempo è una condanna.
Il display del cellulare indica un’ora in lingua italiana.
La timidezza diventa una risata condivisa.
Di tante cose inutili, dimentichiamo anche di darci un nome.
Un ciao alla fine della strada,
ci riporta all’odore del mare.
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Liberamente tratto da alcuni fotogrammi
dei miei giorni a Bari