Tacito / L'Impero ed i predatori del mondo

Predatori del mondo,
adesso che mancano terre
 alla vostra sete di devastazione,
 frugate anche il mare.
Avidi se il nemico è ricco,
arroganti se è povero.
Gente che nè l’oriente nè l’occidente
 possono saziare.
Solo voi bramate possedere
 con pari smania
ricchezza e miseria.
 Rubano, massacrano, rapinano
e con falso nome lo chiamano Impero.
Infine dove fanno il deserto,
 lo chiamano "pace".
Tacito
liberamente  dedicato a Bush ed al suo ineffabile cameriere Silvio

Leopold Senghor cantore della Negritudine

E muoiono di fame
Vedevo nel sogno paesi
fino ai quattro angoli dell’orizzonte
sottomessi alla riga,
alla squadra,al compasso;
falciate le foreste,
distrutte le colline,
nei ceppi valli e fiumi.
Per quanto è grande la terra vedevo
paesi
sotto una griglia di ferro tracciata
da mille rotaie.
E poi vedevo i popoli del sud
formicaio in silenzio al lavoro.
E’ santo il lavoro
ma non va più col gesto
ritmato dai tam-tam
e dalle stagioni che tornano.
gente del sud nei cantieri,nei porti,
nelle miniere,
nelle officine,
segregati la sera
nei borghi miserabili.
Accumulano
montagne d’oro rosso,
montagne d’oro nero:
e muoiono di fame!
Leopold Sedar Senghor (Senegal 1906/ Parigi 2001)

Jaime Saenz / Nessuno ama

Nessuno ama
Nessuno ama e sono le cose che amano,
quando guardo il mondo e i venti, suntuoso batte il mio
cuore nell’angoscia
­- vedo gli esseri soli e straniati dal mondo, esploro
   e arrischio per loro sul nascere
e non amano e non vogliono restare, transitano ed io sono
il loro unico amico.
 
Fin dalla solitudine le cose mi amano, in questa sterile
regione io mi lamento per non ascoltare il tuo sospiro
e non essere acqua per non guardare il suono,
e mi lamento per il sofisma che m’impone l’amore
che le cose mi portano;
ascolto il mormorio con cui si amano
e si perde nei vuoti che hai lasciato al tuo passaggio.
 
Mi nascondo nell’immobilita’
e a me ti aggrappi, e mi muovo e te ne vai
– e si sorridono le cose, il corno e la tromba, e cantano
canzoni.
Jaime Saenz  – ( Bolivia, 1921 – 1986)

Non ti arrendere/ di Mario Benedetti

Non ti arrendere
Non ti arrendere, ancora sei in tempo
di conseguire e cominciare di nuovo,
seppellire le tue paure,
liberare il buonsenso,
riprendere il volo.
Non ti arrendere perche’ la vita e cosi’.
Continuare il viaggio,
perseguire i tuoi sogni,
sciogliere il tempo,
togliere le macerie
e scoperchiare il cielo.
Non ti arrendere per favore, non cedere
Anche se il freddo brucia
Anche se la paura morde
Anche se il sole si nasconde
E taccia il vento
Ancora c’e’ fuoco nella tua anima
Ancora c’e’ vita nei tuoi sogni.
Perche’ la vita e’ tua e tuo anche il desiderio
Perche lo hai voluto e perche’ te quiero
Perche’ esiste il vino e l’amore, e’ certo.
Perche’ non vi sono ferite che non curi il tempo
Aprire le porte,
togliere i catenacci,
abbandonare le muraglie che ti protessero,
vivere la vita e accettare la sfida,
recuperare il sorriso,
provare un canto,
abbassare la guardia e stendere le mani
dispiegare le ali
e tentare di nuovo.
Celebrare la vita e riprendere i cieli.
Non ti arrendere, per favore non cedere,
anche se il freddo brucia
anche se la paura morde,
anche se il sole tramonti e taccia il vento,
ancora c’e fuoco nella tua anima,
ancora c’e vita nei tuoi sogni
perche’ ogni giorno e’ un nuovo inizio,
perche’ questa e’ l’ora e il miglior momento.
Perche’ non sei sola, perche’  te quiero
Mario Benedetti
liberamente tradotto per Bea e dedicato a mia madre che oggi compie 93 anni

Juan Gelman / Il Primo Maggio nel Mondo

Preghiera di un disoccupato
Padre,
         scendi dai cieli, ho dimenticato
le preghiere che mi insegno’ la nonna,
poveretta, lei riposa adesso,
non deve lavare, pulire, non deve
preoccuparsi andando di giorno per la roba,
non deve vegliare, penando e penando,
chiederti cose, richiamarti dolcemente.
Dai cieli scendi, se ci sei, scendi allora,
che’ muoio di fame in quest’angolo di strada,
che’ non so a che serve essere nato,
che’ mi guardo le mani rifiutate,
che’non c’e’ lavoro, non ce n’e’,
                         scendi un poco, contempla
questo che sono, questa scarpa rotta,
questa angoscia, questo stomaco vuoto,
questa citta’ senza pane per i miei denti, la febbre
cavandomi le carni,
                questo dormir cosi’,
sotto la pioggia, castigato dal freddo, perseguitato
ti dico che non capisco, Padre, scendi,
toccami l’anima, guardami il cuore,
non ho rubato, non ho ammazzato, fui bimbo
e in cambio mi colpiscono e colpiscono,
ti dico che non capisco, Padre, scendi,
se ci sei, perche’ cerco
rassegnazione in me e non ne ho e vado
a prendermi la rabbia ed affilarla
per picchiare e vado
a gridare a squarciagola,
perche’ non ne posso piu’, ho reni
e sono un uomo,
scendi, che ne hanno fatto
 della tua creatura, Padre ?
                       un animale furioso
che mastica la pietra della strada?
                                                      da "Violin y otras cuestiones” (1956)
Juan Gelman (Argentina – 1930)
liberamente tradotto per la compagna Bea e dedicato a tutti i coglioni del mondo

Tu che giammai….
Per capriccio m’hai sabato baciato,
per capriccio di maschio audace e fino;
ma grato fu il capriccio mascolino
a questo cuore, mio lupetto alato.
Non ch’io creda: non credo. Se curvato
sulle mie mani ti sentii, divino,
che me ne inebbriai, so questo vino
non e’ per me; ma il giuoco, ormai, e’ avviato.
Io son la donna che già vive accorta;
in te tremendo il maschio prende avvio.
Sembri un torrente che al fiume si porta,
e piu’ ti gonfi, mentre corri e predi.
Resistere che val? Tu mi possiedi,
tu che giammai sarai del tutto mio.
 
Alfonsina Storni
(qui la scheda)
(Argentina, 1892-1938)

dedicata alla mia amica Bea

Della distruzione o amore del Nobel Aleixandre

A te, viva
Quando contemplo il tuo corpo disteso
come un fiume che non cessa mai di passare,
come un limpido specchio dove cantano uccelli
e dà gioia sentire il giorno come albeggia.
Quando guardo i tuoi occhi, profonda morte o vita che mi chiama,
canzone da un profondo che sospetto;
o vedo la tua forma, la tua fronte serena,
pietra lucente ove i miei baci brillano,
come rocce che specchiano un sole che non cala.
Quando accosto il mio labbro a quell'incerta musica,
al rumore di quanto è sempre giovane,
dell'ardore terrestre che canta in mezzo al verde,
umido corpo in perpetuo trascorrere
come amore felice che va e torna…
Sotto di me sento il mondo girare,
girare lieve con virtù eterna di stella,
con generosità lieta di astro
che non chiede neppure un mare ove riflettersi.
Tutto è sorpresa.Il mondo scintillante
sente che un mare a un tratto è la tremulo, nudo,
che è quel petto avido,febbrile,
che chiede solo il brillio della luce.
La creazione fulge.Resa quieta la gioia
passa come un piacere che non tocca il suo colmo,
come fulminea ascensione d'amore
dove il vento circonda le fronti più cieche.
Contemplare il tuo corpo alla tua sola luce,
con la vicina musica che concerta gli uccelli,
le acque, il bosco, il palpito in catene 
di questo mondo pieno che sento sulle labbra.

Leggere e' il miglior rimedio

*l’autore e’ un tale Bruno Kempel

Il primo libro che lessi d’un fiato, senza capirlo a fondo ma indovinando quello che non sapevo, si chiamava Anna. Era un libro di carne e ossa  le cui pagine erano dita e labbra e caverne e montagne che  insegnavano lezioni  imperiture. Non fui io a sceglierlo ma al contrario.

Dalla prefazione alla fine era una pura lezione di vita. Ogni frase pronunciata dalle sue dita  accaponava la pelle  in tutti i miei sensi ed ogni paragrafo quasi sempre finiva in un sospiro di allegria. Ogni capitolo era un invito irrinunciabile a visitare il prossimo, e cosi’ fino a svenire di tanto leggere ed esser letto.

Credo che ad Anna la lessi tutti i pomeriggi dei miei 13 anni, mentre le colombe ci spiavano dalla finestra  del balcone, probabilmente tentando di imparare a leggere come facevamo noi.

Oggi, si oggi, dopo tanti anni, lustri, decenni, frasi , paragrafi e capitoli protagonizzati da me in lungo e  in largo della mia vita, so che nei non pochi libri  che ho letto e leggo da allora, sempre ho cercato e cerco tra le gambe delle sue righe, tra le frasi dei suoi muscoli, tra i capitoli dei suoi seni, tra la conclusione del suo bacino, la prima Anna che lessi in prosa e versi e capii senza  parole. Debbo riconoscere che poche volte l’ho trovata.

Dev’essere per questo che tutti i libri per me sono uno solo, anche se tradotto nel linguaggio di ognuna delle sue autrici. Tutte le mutande mi insegnano la stessa ripetuta lezione, e tutte le volte che leggo e capisco mi sento come se avessi tredici aprili in fiore e fossi io l’autore del libro.

El primer libro que leí de punta a punta sin haber llegado a entenderlo a fondo pero adivinando lo que no sabía, se llamaba Ana. Era un libro de carne y hueso y cuyas páginas eran dedos y labios y cavernas y montañas que enseñaban lecciones imperecederas. No fui yo quien lo eligió, sino todo lo contrario.
Desde el prólogo y hasta el punto final era un puro aprender a vivir. Cada frase pronunciada por sus dedos provocaba piel de gallina en todos mis sentidos, y cada párrafo casi siempre terminaba en un suspiro de alegría. Cada capítulo era una invitación irrechazable a visitar el siguiente, y así hasta desmayar de tanto leer y ser leído.
Creo que a Ana la leí todas las tardes de mis trece años, mientras las palomas nos espiaban por la ventana del balcón, probablemente intentando aprender a leer como nosotros lo hacíamos.
Hoy, sí, hoy, después de tantos años, lustros, décadas, frases, párrafos y capítulos protagonizados por mí a lo largo y a lo ancho de la vida, sé que en los no pocos libros que leí y leo desde entonces, siempre buscaba y busco entre las piernas de sus renglones, entre las frases de sus muslos, entre los capítulos de sus senos, entre la moraleja de sus pelvis, a la primera Ana que leí en prosa y verso y entendí sin más palabras. Debo reconocer que pocas veces la encontré.
Debe ser por eso que todos los libros para mi son uno solo, aunque siempre traducido al lenguaje de cada una de sus autoras. Todas las entrepiernas me enseñan la misma y repetida lección, y todas las veces que leo y entiendo, me siento como si tuviera trece abriles en flor y fuera yo el autor del libro.
(omaggio alla mutanda di Die)

Benedetti/ Una donna nuda e al buio

Una donna nuda e al buio
ha un chiarore che ci illumina
in modo che se succede uno sconforto
un black-out o una notte senza luna
e’ conveniente e persino imprescindibile
tenere vicino una donna nuda.

Una donna nuda e al buio
genera uno splendore che da’ fiducia
e allora  segna festa il calendario
vibrano negli angoli  le ragnatele
e gli occhi felici e felini
guardano e non si stancano di guardare.

Una donna  nuda e al buio
e’ una vocazione per le mani
per le labbra quasi un destino
e per il cuore uno  sperpero
una donna nuda e’ un enigma
e sempre e’ una festa decifrarlo.

Una donna nuda e al buio
genera una propria luce e ci accende,
il  soffitto  si  trasforma in cielo
ed e’ una gloria non essere innocente
una donna  voluta  o  intravista
sconfigge  per una volta la morte.

Mario Benedetti  (Uruguay)